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Association des professeurs d'italien du Nord et du Pas de Calais

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Angolo della lettura

Raccontare una storia è come dipingere un’immagine con le parole.

Estratti Romanzi

A volte decidi di leggere un libro perché la copertina ti attira e altri perché l’incipit ti prende subito.

Questa sezione racchiude estratti che provengono dai libri che ci sono particolarmente piaciuti e che leggiamo e che possiamo adattare nelle sequenze per i nostri alunni.

Estratto 1: L’arrivo in Italia

Fabio GEDA, Nel mare ci sono i coccodrilli, 2010

A Torino, fra carrelli, bagagli e una comitiva di bambini che rientravano da una gita, Payam e io ci siamo riconosicuti a stento: l’ultima volta che ci eravamo visti io avevo nove anni (forse), ora quindici (forse), lui due o tre più di me, e la nostra lingua ci suonava straniera come non era mai successo, tra noi, durante l’infanzia.
È stato Payam ad accompagnarmi all’Ufficio minori stranieri, senza nemmeno darmi il tempo di abituarmi alle forme delle case o al fresco dell’aria (era metà settembre). Mi aveva chiesto subito – sentivo ancora il calore del suo braccio contro il petto – quali erano le mie intenzioni, perché non potevo stare nell’indecisione a lungo; l’indecisione non è sana per chi è senza permesso di soggiorno. Ho guardato fuori dalla caffetteria in cui eravamo entrati per un cappuccino – conosco un posto dove fanno i migliori cappuccini della città, aveva detto – e ho pensato a quelle due persone, il ragazzo di Venezia e la signora del treno per Torino, che mi erano piaciute tantissimo, entrambe, tanto da desiderare di abitare nello stesso paese in cui abitavano loro. Se tutti gli italiani sono così, ho pensato, questo è un posto in cui potrei anche fermarmi. Ero stanco, a dire il vero. Stanco di essere sempre in viaggio.
Così ho detto a Payam: voglio restare in Italia. E lui ha detto: Va bene. Ha sorriso, ha pagato il cappuccino salutando il barista, che, a quanto pare, conosceva, e ci siamo diretti a piedi all’Ufficio minori stranieri. Il sole stava tramontando e c’era un vento forte che spazzava le strade. Quando siamo arrivati era tardi e l’Ufficio stava chiudendo. Payam ha parlato al posto mio, e quando la signora gli ha spiegato che non avevano posto per me da nessuna parte, in nessuna comunità o altro, e che per una settimana avrei dovuto arrangiarmi, ha chiesto alla signora di attendere un attimo, si è voltato e mi ha ripetuto ogni parola. Abbiamo ringraziato e siamo usciti.
Anche lui viveva in una comunità. Non poteva ospitarmi. Posso dormire in un parco, ho detto. Non voglio che tu dorma in un parco, Enaiat. Ho un amico in un paese fuori Torino, gli chiederò di ospitarti. Così Payam ha chiamato questo suo amico, che ha subito accettato. Insieme siamo andati alla stazione dei pullman e Payam mi ha detto che non dovevo scendere finché non avessi visto qualcuno sporgersi e dirmi di seguirlo. Ho fatto così. Dopo un’ora di viaggio, a una fermata, sulla porta è apparsa la testa di un ragazzo afghano, mi ha fatto segno con la mano che ero arrivato. Sono andato a casa sua, sì, ma dopo tre giorni – non so bene cos’era successo – se n’è uscito che gli spiaceva, che era triste eccetera, ma che non poteva più ospitarmi. Ha detto che ero un clandestino, anche se mi ero consegnato all’Ufficio minori di mia spontanea volontà, e se la polizia mi trovava a casa sua rischiava di perdere i documenti. 

Estratto 2: Viki scopre Milano

Fabrizio GATTI, Viki che voleva andare a scuola, 2003

I treni del metrò sono diversi da quelli che vanno da Bari a Milano. Sono più piccoli, più affollati più rumorosi. E soprattutto si fermano a tutte le stazioni. La gente di Milano sta quasi sempre in piedi, appiccicata 1 schiena contro schiena. Molti sono sudati e qualcuno puzza.
Papà ci fa scendere alla fermata Duomo.
Saliamo i gradini della stazione sotterranea e in cielo appare una statua. Poi un’intera fila di statue. Una foresta di torri. La sagoma di un tetto. Otto finestroni, una facciata bianca macchiata di grigio. Un grande portone. Altri quattro portoni ai suoi fianchi. Un piazzale più grande di un campo di calcio. Centinaia di persone ovunque. Il piazzale si allarga davanti a noi a destra, a sinistra, perfino alle nostre spalle. Le statue stanno in punta di piedi su quelle strane torri altissime e sembra che debbano cadere da un momento all'altro per la stanchezza. La più grande di tutte splende nel cielo come se fosse d’oro. “Viki ma questo è un castello grandissimo” esclama stupita Brunilda. “Brunilda, non è un castello. È il Duomo” spiega papà. “Questa è la più grande chiesa di Milano. E quella lassù è la statua della Madonnina tutta ricoperta d’oro.”
Anche qui, come davanti alla stazione, bisogna alzare il mento il più possibile e fare qualche passo indietro per riuscire a vedere così in alto. “Andiamo a dire una preghiera?” chiede la mamma. “Andiamo” risponde papà e ci prende per mano. Brunilda è la prima ad arrivare al portone.
“È chiuso” sussurra.
“Già, sono chiuse le porte laterali” osserva papà.
“Chiuse?” si meraviglia la mamma. “Ma la casa di Dio non può essere chiusa.”
“Eh no. È proprio chiuso” dice papà dopo aver dato una spinta al portone.
“Ma in Albania le chiese sono aperte giorno e notte. Com’è possibile che in Italia,
l’Italia del Papa, chiudano di sera?” domanda la mamma.
“Andiamo, bambini” dice papà e ci riprende per mano. “Mara, qui ci sono quadri,
statue. La Madonnina sul tetto è tutta d'oro. È normale che chiudano di notte.”
“Ma la casa di Dio dovrebbe essere sempre aperta. Vuoi dire che chiudono le chiese perché sono troppo ricchi?” domanda la mamma.
“Ricchi chi?” chiede papà.
“Non so, i preti” dice la mamma delusa.
Sono tutti grandi, gli abitanti di Milano. Di bambini soli non se ne vedono in giro. E i pochi che passano, sono sempre con persone grandi. Gli altri bimbi camminano come noi, tenuti per mano. Oppure sono in braccio a qualcuno o, i più
fortunati, seduti su seggiolini di tela con quattro ruote e due manici di ombrello per spingerli.
“Papà, ma c’è ancora tanto da camminare?”“No, Viki, adesso prendiamo il tram, che è come un treno …”
“Andiamo ancora sottoterra?”
“No, Viki, il tram va sulla strada, tra le macchine.”
“A quest’ora Lezhe è ancora piena di bambini. Poco prima di cena, sono tutti fuori a giocare. Qui adesso siamo proprio gli unici bambini della strada.”
“Corso di Porta Romana.”
“Cosa, Viki?” chiede Brunilda.
“Corso di Porta Romana. È scritto là sul muro.”
“Bravo Viki, leggi come un italiano” dice papà.
“Adesso prendiamo il tram numero 24.”
Il primo tram si presenta alle nostre spalle con il fracasso di un cataclisma.
Ferraglie che stridono. Ruote che si contorcono. Scintille azzurre dal cielo. Trema perfino il marciapiede. Brunilda per lo spavento si attacca alle gambe della mamma.
“Non è questo” dice papà. […]
Papà e la mamma non smettono di parlare. Hanno un anno e mezzo di vita da raccontarsi nel lento movimento del tram verso la periferia riescono sì o no a sistemare la prima settimana.
“Papà, perché le signore quando passano vicino a noi tengono la borsa più stretta o la mettono sull’;altro braccio?” chiede Brunilda.
“Come?”
“Sì” insiste Brunilda, “quasi tutte le signore, quando sono vicino a noi stringono la borsa come se avessero paura.”
“Non so, non ho visto” risponde papà.
Il tram si ferma, apre tutte le porte e tutti i passeggeri scendono. La mamma dice che ci sono altri albanesi. Più un uomo nero o due con la faccia rotonda e gli occhi sottili.
“Adesso dobbiamo camminare ancora un po'”dice papà.

Estratto 3 : TABUCCHI, Sostiene Pereira, Feltrinelli, Milano 1994

Pereira sostiene che la città sembrava in mano alla polizia, quella sera. Ne trovò dappertutto. Prese un taxi fino al Terreiro do Paço e sotto i portici c’erano camionette e agenti con i moschetti. […] Questa volta dovette passare di fronte ai drappelli, e questo gli procurò un leggero malessere.
Passando sentì un ufficiale che diceva ai soldati: e ricordatevi ragazzi che i sovversivi sono sempre in agguato, è bene stare con gli occhi aperti. Pereira si guardò intorno, come se quel consiglio fosse stato dato a lui, e non gli parve che bisognasse stare con gli occhi aperti. L’Avenida da Liberdade era
tranquilla, il chiosco dei gelati era aperto e c’erano delle persone ai tavolini che prendevano il fresco. Lui si mise a passeggiare tranquillamente sul marciapiede centrale e a quel punto, sostiene, cominciò a sentire la musica.
Era una musica dolce e malinconica, di chitarre di Coimbra e trovò strana quella coniugazione, di musica e polizia. Pensò che venisse da Praça da Alegria e infatti così era, perché man mano che si avvicinava la musica aumentava di intensità. Non sembrava proprio una piazza da città in stato d’assedio, sostiene Pereira, perché non vide polizia […]. Poi vide uno striscione di stoffa teso da un albero all’altro della piazza dove c’era un’enorme scritta: Onore a Francisco Franco. E sotto, in lettere più piccole: Onore ai militari portoghesi in Spagna. Sostiene Pereira che solo in quel momento capì che quella era una festa salazarista, e per questo non aveva bisogno di essere presidiata dalla polizia. […] Pensò che forse Monteiro Rossi era uno dei loro, pensò al carrettiere alentejano che aveva macchiato di sangue i suoi meloni 1 , pensò a quello che avrebbe detto padre António se lo avesse visto in quel luogo. Pensò a tutto questo e si sedette sulla panchina dove sonnecchiava la guardia notturna, e si lasciò andare ai suoi pensieri. O meglio, si lasciò andare alla musica, perché la musica, nonostante tutto, gli piaceva.
[…] E poi pensò a altre cose della sua vita ma queste Pereira non vuole riferirle, perché sostiene che sono sue e solo se e che non aggiungono niente a quella sera e a quella festa in cui era capitato suo malgrado. E poi, sostiene Pereira, a un certo punto vide alzarsi da un tavolino un giovane alto e snello
con una camicia chiara che andò a mettersi fra i due vecchietti musicanti. E, chissà perché, sentì una fitta al cuore, forse perché gli sembrò di riconoscersi in quel giovanotto, gli sembrò di ritrovare se stesso dei tempi di Coimbra 2, perché in qualche modo gli assomigliava, non nei tratti, ma nella maniera di muoversi, e un po’ nei capelli, che gli cadevano a ciocca sulla fronte. E il giovane cominciò a cantare una canzone italiana, O sole mio […], e tutto gli parve bello, la sua vita passata di cui non vuole parlare, Lisbona, la volta del cielo che si vedeva sopra le lampadine colorate, e sentì una grande nostalgia,
ma non vuole dire per che cosa, Pereira. Comunque capì che quel giovanotto che cantava era la persona con la quale aveva parlato al telefono nel pomeriggio, così quando costui ebbe finito di cantare, Pereira si alzò dalla panchina, perché la curiosità era più forte delle sue riserve, si diresse al tavolino e disse al giovanotto: il Signor Monteiro Rossi, immagino. […]
Sostiene Pereira che si accomodò al tavolino sentendosi imbarazzato. Pensò fra sé che quello non era il suo posto, che era assurdo incontrare uno sconosciuto a quella festa nazionalista, che padre António non avrebbe approvato il suo comportamento […] E fu tutto questo che pensava che gli dette il coraggio di fare una domanda diretta, tanto per aprire la conversazione e senza pensarci più di troppo chiese a Monteiro Rossi: questa è una festa della gioventù salazarista, lei è della gioventù salazarista? Monteiro Rossi si ravviò la ciocca di capelli che gli cadeva sulla fronte e rispose: io sono laureato in filosofia, mi interesso di filosofia e di letteratura, ma questo cosa c’entra con il “Lisboa”? C’entra, sostiene di aver detto Pereira, perché noi facciamo un giornale libero e indipendente, e non ci vogliamo mettere in politica. […] E sorseggiando la sua limonata chiese a bassa voce, come se qualcuno potesse udirlo e censurarlo: ma a lei, scusi, ecco, vorrei chiedere questo, a lei interessa la morte?
Monteiro Rossi fece un largo sorriso, e questo lo imbarazzo, sostiene Pereira. Ma che dice dottor Pereira, esclamò Monteiro Rossi a voce alta, a me interessa la vita. E poi continuò a voce più bassa: senta, dottor Pereira, di morte sono stufo, due anni fa è morta mia madre, che era portoghese e che faceva l’insegnante […] l’anno scorso è morto mio padre, che era italiano […] ho ancora una nonna che vive in Italia, ma non la vedo da quando avevo dodici anni e non ho voglia di andare in Italia, mi pare che la situazione sia ancora peggio della nostra, di morte sono stufo, dottor Pereira, scusi se sono
franco con lei, ma poi perché questa domanda? […] [Pereira spiega a Rossi che al giornale stanno cercando qualcuno che scriva i necrologi degli scrittori]. Monteiro Rossi si ravviò la ciocca dei capelli che gli cadeva sulla fronte e disse: dottor Pereira, io parlo bene le lingue e conosco gli scrittori
della nostra epoca; a me piace la vita, ma se lei vuole che parli della morte e mi paga, così come mi hanno pagato stasera per cantare una canzone napoletana, io posso farlo, e per dopodomani le scrivo un elogio funebre di García Lorca, che ne dice di García Lorca?, in fondo ha inventano
l’avanguardia spagnola, così come il nostro Pessoa ha inventato il modernismo portoghese, e poi è un artista completo, si è occupato di poesia, di musica, di pittura. Pereira sostiene di aver risposto che García Lorca non gli sembrava il personaggio ideale, comunque si poteva tentare, purché se ne
parlasse con misura e cautela, facendo riferimento esclusivamente alla sua figura di artista e senza toccare altri aspetti che potevano essere delicati, data la situazione. E allora con la maggior naturalezza possibile, Monteiro Rossi gli disse, senta, scusi se glielo dico, io le faccio l’elogio funebre di García Lorca, ma lei non mi potrebbe anticipare qualcosa?, ho bisogno di comprarmi dei pantaloni nuovi, questi sono tutti macchiati, e domani devo uscire con una ragazza che mi viene ora a cercare e che ho conosciuto all’università, è una mia compagna e mi piace molto, vorrei portarla al cinema.

 

Estratto 4 : La Traduzione

Antonio TABUCCHI, I volatili del beato Angelico, 1987, Sellerio Editore

È una splendida giornata, puoi starne certo, anzi, direi che è estate, è impossibile non riconoscere l’estate, lascia che te lo dica, io me ne intendo. Vuoi sapere da cosa lo deduco, oh, beh, è facilissimo, come dire? basta guardare quel giallo. Come sarebbe a dire? Dunque, stammi bene a sentire, hai presente il giallo? Sì, il giallo, e quando dico il giallo intendo proprio il giallo, che non è il rosso o il bianco, ma proprio il giallo, esattamente giallo. Il giallo, quello là a destra, quella macchia a stella di giallo che si espande sulla campagna come se fosse una foglia, un bagliore, insomma qualcosa di questo tipo, dell’erba seccata dalla calura, mi faccio capire?

Quella casa pare proprio che stia sopra il giallo, che sia retta dal giallo. È strano che se ne veda poca, solo un pezzo, mi piacerebbe saperne di più, chissà chi ci abita, magari la signora che sta attraversando il ponticello. Sarebbe interessante sapere dove sta andando, può darsi che stia seguendo la carrozzella, forse il barboncino che si vede vicino ai due pioppi del fondo, dalla parte sinistra. Potrebbe essere vedova, dato che è vestita di nero. E poi ha anche un ombrello nero.

Comunque quello le serve per ripararsi dal sole, perché ti ripeto che è estate, non ci sono dubbi. Ma ora vorrei parlare di quel ponte, anzi, chiamiamolo ponticello, è così grazioso, tutto fatto di mattoni, avanza con le fondamenta fino a metà del canale. Sai cosa ti dico? Che la sua grazia consiste in quel
marchingegno di legno e corde che lo copre come l’armatura di una pensilina. Sembra un giocattolo per un bambino intelligente, hai presente quei bambini che sembrano degli ometti e che giocano sempre con i meccani o cose del genere, una volta se ne vedeva nelle case perbene, ora forse un po’
meno, comunque hai capito. Ma è tutta un’illusione, perché quel grazioso ponticello che apparentemente ruota con cortesia per lasciar passare i barconi nel canale, secondo me è una trappola bella e buona. La vecchia signora non lo sa, poverina, nemmeno se lo immagina, ma ora muoverà un altro passo e sarà un passo fatale, credi a me, sicuramente metterà il piede su un perfido meccanismo, ci sarà un clic inavvertibile, le corde si renderanno, le assi sospese a leva si stringeranno come mandibole e lei resterà lì dentro come un topo, nella migliore delle ipotesi, perché nella peggiore tutte le sbarre che uniscono le assi, quelle pale un po’ sinistre, se ci pensi bene, scatteranno per combaciare con esattezza millimetrica e lei, zacchete, resterà schiacciata come una frittella. Il vetturale non se ne accorgerà neppure, magari è anche sordo, e poi quella signora non gli interessa niente, credi a me, lui ha altro a cui pensare, se è un contadino penserà alle vigne, i contadini pensano solo alla terra, sono abbastanza egoisti, per loro il mondo finisce col campicello; se è un veterinario, perché potrebbe anche essere un veterinario, sta pensando a qualche vacca malata nella fattoria che deve trovarsi là in fondo, anche se non si vede, le vacche sono più importanti delle persone per i veterinari, ognuno fa il suo mestiere a questo mondo, cosa ci vuoi fare, e gli altri che si arrangino.
Mi dispiace che tu non abbia ancora capito, ma se ti sforzi sono certo che ci arriverai, tu sei una persona intelligente, non ci vuole poi molto a indovinare, o meglio, forse ci vuole un po’, ma mi sembra di averti dato sufficienti informazioni; ti ripeto, probabilmente devi solo collegare gli elementi che ti ho fornito, ad ogni modo guarda, il museo sta per chiudere, vedo il guardiano che ci sta facendo dei cenni, questi guardiani non li sopporto, hanno sempre una spocchia che non ti dico, ma semmai torniamo domani, tanto anche tu non è che abbia troppe cose da fare, no?, e poi l’impressionismo è affascinante, ah, questi impressionisti, così pieni di luce, di colore, dai loro quadri viene quasi un profumo di lavanda, eh sì, la Provenza… Io ho sempre avuto un debole per questi paesaggi, non ti dimenticare il bastone, sennò poi qualche automobile ti investe, l’hai appoggiato qui a destra, un po’ più in là, a destra, ci sei quasi, ricordati, a tre passi sulla nostra sinistra c’è un gradino.

Estratto 5  : Come un respiro, Ferzan Ozpetek

È una domenica mattina di fine giugno e Sergio e Giovanna, come d’abitudine, hanno invitato a pranzo nel loro appartamento al Testaccio due coppie di cari amici. Stanno facendo gli ultimi preparativi in attesa degli ospiti.

L’arrosto è quasi pronto. L’aroma è delizioso. Anche le verdure gratinate hanno un profumo invitante. Il grande orologio appeso accanto al frigorifero segna le undici e mezzo. Tra un’ora arriveranno gli ospiti, se così si possono chiamare gli amici di una vita: Giulio ed Elena, e Annamaria e Leonardo, che presto avranno un bambino. Mentre si gira verso il frigorifero, Sergio guarda di sfuggita la propria immagine riflessa nella finestra della cucina e per un attimo se ne compiace. È un bell’uomo, e sa di esserlo. Moro, capelli ricci e occhi castani, la fronte spaziosa, le labbra sensuali, a trentaquattro anni ha un fisico asciutto e muscoloso, senza però gli eccessi di chi è schiavo della palestra.

Alle sue spalle Giovanna si muove efficiente intorno al grande tavolo della cucina. Sono sposati da due anni, ma stanno insieme da dodici, e Sergio la conosce talmente bene che può indovinare cosa stia facendo anche a occhi chiusi. Ma sarà poi così? Bastano dodici anni per conoscersi davvero? Si volta. Giovanna, in tuta, sta apparecchiando la tavola per sei, con la concentrazione di un architetto che dispone le fondamenta di un palazzo, gli occhi azzurri assorti e pensosi. I corti capelli biondi un po’ arruffati le danno ancora l’aria della ragazzina che aveva abbordato nel bar dell’università, eppure hanno più o meno la stessa età. Come i loro amici, appartengono alla generazione che ha da poco superato i trenta. Sergio sorride tra sé: sa leggere sua moglie come un libro aperto. Solida, precisa, efficiente e affidabile. Se c’è qualcosa di cui non è dotata è l’imprevedibilità. E lui la ama per questo.

Solida come quel loro appartamento al Testaccio, all’interno di un fascinoso palazzo dei primi del Novecento, che hanno comprato nemmeno due anni fa, ma è come se ci stessero da sempre, perché rispecchia esattamente i loro gusti. Due grandi ambienti luminosi, la zona notte con la camera da letto, la cabina armadio e il bagno, e quella giorno con il salotto e attiguo studio e, soprattutto, un’accogliente cucina dove ricevere gli amici a pranzo la domenica, una consuetudine inaugurata anni prima e che nel tempo è diventata un rito irrinunciabile.

Sergio ama cucinare per gli amici. Durante la settimana è sempre di corsa, fra il tribunale e il suo studio di avvocato. Si occupa di diritto societario, ha a che fare con clienti danarosi, cause milionarie. Certo guadagna bene, ma il lavoro è stressante. Così, far da mangiare è il suo modo di rilassarsi. Da buongustaio qual è, nella vasta cucina superaccessoriata, piena di barattoli, spezie e piante aromatiche in vaso, si diverte a sperimentare nuove ricette. È lì, in cucina, che lui e Giovanna accolgono gli ospiti per il pranzo, seduti intorno al grande tavolo di legno scurito dall’uso, sistemato proprio al centro. Perché è la stanza che entrambi amano di più. Dove ogni arredo, mobile e suppellettile è stato scelto con una cura speciale.

Giovanna non ama le tovaglie, preferisce apparecchiare direttamente sul tavolo. Dopo aver distribuito i piatti e le posate, porta in tavola i bicchieri. Li dispone, fa un passo indietro e osserva l’effetto finale con occhio critico, come un artista che valuti il proprio dipinto al termine del lavoro. Sergio la osserva con la coda dell’occhio. È una perfezionista in ogni cosa che fa. Ora Giovanna sta prendendo dal frigo dei fiori di zucca e li mescola a un mazzo di peperoncini, poi aggiunge due melanzane baby. Recupera da un armadio una ciotola di ceramica bianca e vi dispone soddisfatta la composizione: sarà un centrotavola perfetto.